Nicola Binda – La mia storia

WE LOVE FOOTBALL e io lo amo veramente questo gioco del calcio, tanto da considerare una enorme fortuna essere riuscito a farlo diventare il mio lavoro.

Certo, quando giocavo nei Pulcini, speravo di fare il calciatore. Ma ci ho creduto solo fino agli Esordienti, magari un po’ anche nei Giovanissimi. Già negli Allievi era diventata dura e, quando sono arrivato alla Berretti e poi mi hanno prestato in Prima categoria, ho capito che era Meglio provarci in un altro modo.
Mi sarebbe piaciuto fare l’allenatore. Ma anche il direttore sportivo non sarebbe stato male. Il procuratore no, in quegli anni (sono nato nel 1965) ancora non era una professione così diffusa, e comunque non sarei stato tagliato per farlo.
Come fare quindi?

L’occasione me l’ha data mio padre Giulio. Un suo amico farmacista era il corrispondente de La Gazzetta dello Sport che raccontava le vicende della nostra squadra: l’Omegna. Non poteva più svolgere quel compito e l’ha proposto a me, a 17 anni: ok, proviamo. L’importante era seguire sempre l’Omegna, che mi aveva visto crescere come tentativo di calciatore e alla quale mi sono legato per tutta la vita.
Prima di tutto sono tifoso. Prima di cominciare a giocare ero la mascotte dell’Omegna, mio padre era un dirigente del club arrivato, nel 1977, fino alla Serie C unica. Era l’ultimo anno prima della divisione in C1 e C2 ed io, bambino che vedeva la sua squadra inseguire quel traguardo, ha cominciato a sognarlo. La Serie C! Per me, come la Champions…

L’Omegna vi è arrivata, e io? Ok, la vivevo da tifoso, assalivo ogni squadra che veniva a giocare da noi per avere gli autografi, andavo in trasferta in stadi mitici (uno su tutti: il Grezar di Trieste). Ma da grande, come avrei fatto? Quando ho smesso di giocare ho allenato i bambini, ho fatto il tifoso in gradinata, ho anche mosso qualche passo da dirigente accompagnatore (quello che oggi chiamano team manager), poi per fortuna il fuoco del giornalismo ha cominciato a infiammarmi, fino a farmi decidere una volta per tutte quale sarebbe stato il mio modo per far diventare il calcio il mio lavoro: fare il giornalista.
Facile? Mica tanto.

Nel 1983 ho iniziato a fare le cronache dell’Omegna per la Gazzetta, ma anche a collaborare con altri giornali, radio e tv locali. Ok, bene. Ma il lavoro vero? Andato a Milano a fare l’università, frequentavo più la redazione della rosea che le aule. Ero sicuramente più attratto – rispetto alle lezioni di Economia e Diritto – da quelle giornate passate accanto a Candido Cannavò, Franco Mentana, Angelo Rovelli, Roberto Beccantini, Maurizio Mosca e tanti altri califfi del giornalismo. Forse ero simpatico, forse li colpivo con quella che era la mia passione: il campionato di Serie C. Di sicuro mi sono meritato la loro stima e, nel 1989, sono stato assunto.
Un unico rimpianto: non aver potuto festeggiare con mio padre, che se n’era andato un anno prima. Peccato.

Lì comunque è cominciato tutto. Responsabile della Serie C per la Gazzetta: per me, il massimo. Il prezzo è stato salato, perché ho dovuto abbandonare la mia Omegna, che nel frattempo è rotolata in basso e che potevo seguire solo conoscendo i risultati alla domenica sera. Era il 1989. E per tanti anni è stato così.

Poi nel 2005 la mia vita è cambiata. Prima di tutto perché a nata Chiara, la mia prima bimba (oggi pallavolista). E poi perché, insieme ai miei vecchi compagni degli Esordienti e a un ex presidente degli anni della C, abbiamo deciso di salvare l’Omegna, precipitata in Prima categoria e senza un futuro. Un bellissimo gruppo, una bellissima esperienza. Che mi ha portato, nel 2006, a diventare anche il presidente del club per due stagioni e mezza, vincendo nel 2008 un campionato di Prima categoria passato alla storia (anche per un tuffo nel lago un po’… azzardato) perché non ne vincevamo uno da tantissimi anni.

Tuttora sono dirigente dell’Omegna. L’ho sempre seguita da vicino anche se gli impegni di lavoro sono aumentati: nel 2007 è nata anche Alessandra (oggi tennista) e sono diventato responsabile anche della Serie B. Quando non ero a Milano, quando gli impegni di famiglia me lo consentivano, andavo alle riunioni e agli allenamenti, spesso anche alle partite, con viaggi romanzeschi: alla domenica devo essere in redazione quando finiscono le partite, così vedevo 20-30-40 minuti (dipende dove si giocava) e poi volavo a Milano con un occhio al telefono. La tradizione con mio fratello (sempre presente alle partite) è questa: un messaggio per ogni gol subìto, una telefonata per ogni gol segnato. E siccome alla domenica il mio telefono è in perenne attività viste le chiamate o i messaggi dai vari stadi, potete immaginare cosa provavo ogni volta guardando il display…

Faccio così anche oggi. Dopo la retrocessione dall’Eccellenza nel 2016 ci sono rimasto male, ho sofferto troppo, e ho fatto un passo indietro. Solo dirigente, nessuna riunione, qualche allenamento, ma alle partite non rinuncio. Al venerdì o al lunedì vado in giro per l’Italia a vedere anticipi e posticipi di Serie B, al sabato sto in redazione a coordinare il campionato, ma alla domenica c’è l’Omegna.

Ho imparato più cose di calcio facendo il dirigente della mia squadra che frequentando mille tribune stampa. Poter vivere il calcio dall’interno di un club è un’esperienza che ogni giornalista dovrebbe fare. Perché il calcio è uguale a ogni livello. Certo: cambiano i valori tecnici, il peso economico e il contesto del pubblico, ma le relazioni, i comportamenti, le strette di mano, i rapporti con la squadra, il clima degli spogliatoi e tante altre cose non cambiano.
Purtroppo a volte mi accorgo di comportarmi proprio in modi che, con il mio lavoro, condanno. Ma la passione è la passione…

Una volta, quando ero presidente e andavamo male, qualche giornale ci criticava. Cosa ha deciso la società? “Facciamo silenzio stampa!” e ho aderito con entusiasmo, contro quei maledetti giornalisti! Per poi ricordarmi che in fondo sono giornalista anche io e che un presidente giornalista che ordina il silenzio stampa non fa proprio una bella figura… E così abbiamo trovato un compromesso: tutti in silenzio stampa, parla solo il presidente. Fiuuu

Ci sarebbero da scrivere pagine sulle mie due esperienze calcistiche, da giornalista e dirigente.
MAGARI PIÚ AVANTI LO FARÓ SU QUESTO BEL SITO.

Concludo raccontando solo che, tra i momenti più belli di questa mia esperienza con l’Omegna, ci sono anche gli incontri con i bimbi del settore giovanile. In loro mi rivedo, quando hanno la nostra maglia addosso mi emoziono. Spero che da grandi ci sia posto anche per loro nel calcio. E spero che non si dimentichino dell’Omegna.

Una volta un allenatore mi ha chiesto di parlare a una nostra squadra giovanile. Ho detto ai ragazzi che il calcio è una metafora della vita. Ci insegna che abbiamo dei compagni che domani saranno i nostri colleghi di lavoro, che abbiamo degli avversari da battere che saranno i nostri concorrenti, che ci sono degli allenatori che ci guidano come avremo dei capiufficio, che ci sono delle regole da rispettare e degli arbitri pronti a intervenire come faranno i giudici dei tribunali, e che quello che facciamo in campo davanti agli occhi della gente è quello che faremo nel nostro lavoro, nella nostra vita, con qualcuno sempre pronto a giudicarci male se non ci saremo comportati bene.

In fondo, credo proprio che sia così.

NICOLA BINDA

Start a Conversation

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *